lunedì 30 novembre 2009

Di Matteo: ''Servono risorse o i cittadini torneranno a rivolgersi alla mafia''

Dal Quotidiano La Repubblica edizione Palermo
del 29 novembre 2009

di Salvo Palazzolo
(Giornalista)


"Siamo stanchi delle mistificazioni non sono le toghe la causa di tutti i mali del sistema".

«Noi non parliamo per il gusto della polemica e della contrapposizione con la politica - dice il sostituto procuratore Nino Di Matteo, presidente dell´Associazione nazionale magistrati di Palermo - noi vogliamo parlare chiaramente di crisi della giustizia, informando correttamente i cittadini, perché siamo stanchi delle mistificazioni in nostro danno, come se fossero i magistrati la causa di tutti i mali della giustizia».


Perché l´associazione magistrati è tanto contraria alla riforma del cosiddetto processo breve?
«Perché a Palermo è destinata a deludere le aspettative di giustizia di molti cittadini che si erano costituiti parte civile: vedranno spazzati via i propri processi dalla prescrizione. Il sistema più efficace per risolvere la crisi della giustizia, a Palermo come in altre sedi, resta uno solo: far arrivare nuovi magistrati e cancellieri. E poi, aumentare le risorse».

Cosa si è deciso all´incontro di venerdì a Enna, in cui erano riunite le giunte siciliane dell´associazione magistrati?
«Prima di quell´incontro, i magistrati siciliani si erano riuniti soltanto in occasione di drammatici lutti: dopo la morte di Rosario Livatino, dopo le stragi di Capaci e via d´Amelio. Questo deve far comprendere che c´erano gravi motivazioni per un nuovo incontro. Le giunte distrettuali dell´Anm hanno deciso di operare più a stretto contatto. Siamo convinti che il divieto imposto ai giovani magistrati di lavorare in Procura nasconda una precisa volontà di indebolire definitivamente gli uffici del pubblico ministero, per spostare il baricentro dell´effettiva direzione delle indagini sulla polizia giudiziaria».

Quanto pesa la crisi della giustizia a Palermo nel difficile percorso della lotta alla mafia?
«La domanda di giustizia da parte dei cittadini si fa sempre più pressante. È bene che sia così. Per anni, non bisogna dimenticarlo, molti siciliani hanno preferito rivolgersi al mafioso di turno per la risoluzione delle proprie controversie private. Adesso che un percorso di legalità è stato fatto, non si possono deludere le aspettative dei cittadini. Rappresenterebbe un pericoloso passo indietro. Oggi, la situazione in cui versano molte Procure in Sicilia, con pesanti vuoti in organico, rischia di avere effetti devastanti: un commerciante che vuole denunciare i suoi estorsori potrebbe non trovare un magistrato per la sua denuncia».

I vuoi di organico avranno effetti pesanti solo nelle piccole Procure?
«Tutt´altro. A Palermo, dove non sono stati coperti 16 posti, i magistrati della direzione distrettuale antimafia sono costretti a sospendere le indagini per andare ai processi ordinari, anche quelli civili. Oppure, sono chiamati a convalidare l´arresto di un venditore di Cd».

La famiglia di Damiano Damiani scrive al premier: "Non si fa brutta figura raccontando la verità"

Dal Quotidiano L'Unità
del 29 novembre 2009


La famiglia di Damiano Damiani, che fu tra gli autori e regista de 'La piovrà e oggi ha 87 anni, ha scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio in cui afferma: «Siamo certi di non fare 'brutta figurà se mostriamo di essere un Paese che riesce a raccontare i propri problemi e le proprie difficoltà, mentre siamo certi di fare 'brutta figurà in caso contrario».

Nella lettera si ricordano «I 15 milioni di spettatori che seguirono la prima serie de 'La Piovrà e determinarono un successo grandissimo e inaspettato, facendo capire quanto il pubblico fosse ben disposto anche verso la denuncia sociale, se ben fatta. Erano da poco morti assassinati Gaetano Costa, Cesare Terranova, Emanuele Basile, Pio La Torre, Pier Santi Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e tanti altri, senza che un solo colpevole fosse stato arrestato e l'opinione pubblica ancora aspettava giustizia. La Piovrà è del 1984 ed è figlia del cinema di denuncia degli anni settanta, di cui nostro padre è a pieno titolo un esponente con Rosi, Petri, Montaldo, Lizzani ed altri».

Tra l'altro la famiglia Damiani si chiede: «Come sarebbe stata la nostra cinematografia senza 'Mani sulla citta» di Rosi o 'Il giorno della civettà di Damiani? O 'Sacco e Vanzettì di Montaldo e 'Il Caso Matteì di Rosi?. Noi crediamo di dover molto a quel cinema. Crediamo sia stato uno dei momenti di grande democrazia del nostro Paese e quindi ci piacerebbe che chi ci governa lo rispettasse«.

Forse, il commissario Cattani inventato da nostro padre, nella 'fiction' sarebbe felice se i politici, di qualsiasi livello ed area politica, sospettati di collusione con la mafia, di crimini, di voto di scambio o di rapporti con la malavita si impegnassero nella difficile arte delle dimissioni«, dice ancora la famiglia di Damiano Damiani, per concludere: »Ma 'La Piovrà era un film e Cattani un personaggio di fantasia. Nella realtà, a tanti anni di distanza, sappiamo come il nostro Paese potrebbe fare altre 'belle figurè: onorando le aspettative del commissario e non vergognandosi di lui, nè tantomeno 'strozzandò chi lo ha fatto vivere«.

Passaparola del 30 novembre 2009

«Berlusconi avrebbe strozzato anche Giovanni Falcone»

Dal Quotidiano L'Unità
del 30 novembre 2009

di Jolanda Bufalini
(Giornalista)


Sarebbe proprio di quelli da strozzare Marcelle Padovani: è una giornalista straniera, quindi esporta l’immagine del paese. E scrive di mafia, suo fu il libro intervista con Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”. E infatti, reagisce alle parole del premier: «allora Berlusconi strozzerebbe anche Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia ». «Fu con l’opera di Falcone e Borsellino che magistrati e forze dell’ordine furono messi nelle condizioni di combattere la mafia».

Perché anche l’attuale procuratore Piero Grasso insiste sulla necessità che della mafia si parli?
«Se non c’è attenzione dell’opinione pubblica la mafia diventa normalità. Berlusconi dovrebbe scrivere un libro dal titolo “La mafia è morta”, ma sappiamo bene che - anche se non si muovono i killer - nella finanza, nel traffico degli stupefacenti e delle armi, la mafia non è morta. Non solo si deve parlarne ma sostenere le associazioni come “Addio pizzo” o i ragazzi di Locri. »

Il premier dice che si fa brutta figura all’estero.
«Una ventina di anni fa ci convocarono al ministero degli Esteri per discutere come si potesse migliorare l’immagine dell’Italia. Alcuni di noi risposero che per farlo bisognava migliorare l’Italia e lasciar perdere quest’idea manipolatoria. Ma questo è proprio nella linea di Berlusconi, lui vive nel suo Truman Show».

Truman Show?
«Il Berlusconi politico, non quello dei suoi affari, è fatto così: finti programmi, finte leggi, poi ti accorgi, come elettore, che nel paniere non hai raccimolato niente. Il grande venditore crea una realtà artificiale.Malo stesso procedimento si può utilizzare al contrario, se non si parla di una cosa si dà l’impressione che quella cosa non esista ».

Però c’è anche qualcosa di antico in Berlusconi, già ai tempi delle prime commissioni d’inchiesta....
«Sì, allora c’erano personaggi come il cardinale Ruffini che dall’alto della loro cattedra sminuivano l’importanza del fenomeno mafioso».

E poi c’è l’assimilazionedi chi denuncia a chi denigra il paese. In Iran succede che i dissidenti siano accusati di calunniare il proprio paese.
«Anche gli antifascisti italiani in Francia durante il fascismo erano accusati di questo ma in realtà lavoravano per costruire un’altra Italia».

Berlusconi dice che nessuno ha combattuto la mafia più di lui.
«Le forze dell’ordine (le migliori in Europa nel contrasto alla criminalità organizzata) hanno portato in carcere il gotha di Cosa Nostra. Ma questo non dipende dal governo che, al contrario, permette il rimpatrio dei capitali con la sola multa del 5%. E fra quei capitali ci sono quelli mafiosi.E poi c’è l’autorizzazione a vendere i beni sequestrati, con il rischio che, la criminalità organizzata, attraverso prestanome, si ricompri ciò che lo Stato gli ha tolto».

Qual’è la situazione attuale della criminalità organizzata in Italia?
«La mafia siciliana è calante, incapace persino di riunire la Cupola. Ma cresce la ‘Ndrangheta, che l’amministrazione Usa cataloga fra le 5 organizzazioni criminali più pericolose nel mondo. Questo significa che l’Italia è ancora soggetta al ricatto. Il problema dell’Italia è che gruppi, clan, logge proliferano in assenza dello Stato, di strutture statali capaci di regolare gli interessi collettivi.

Sì, infango il Paese ma il mio editore è un suo omonimo

Dal Quotidiano L'Unità
del 30 novembre 20009

Raffaele Cantone
(Giudice della Suprema Corte di Cassazione)


Ill.mo sig. Presidente del Consiglio, ho letto, e sentito in tv direttamente dalla Sua voce, che finalmente ha individuato i responsabili dei mali della Nazione. Si tratta, ha detto con giusta enfasi, dei registi, degli sceneggiatori e degli scrittori che nelle loro opere evocano un mostro inesistente: le mafie. Il Suo lucido ragionamento mi ha subito convinto: questi pennivendoli, pur di guadagnare qualche soldo, infangano il nostro Stato descrivendo un degrado morale, economico e sociale che esiste solo nella loro deviate fantasie. Ben potrebbero, invece, mi consenta, cantare le lodi, accompagnati eventualmente dagli stornelli di qualche posteggiatore napoletano, di un paese dove mare, sole e spaghetti formano un’indimenticabile cartolina.
Le Sue parole mi rodono la coscienza. Ho, così, deciso di confessarLe il mio grave peccato e lo farò, come ogni giorno fanno gli arconti della Nazione, senza chiedere attenuanti, indulti, prescrizioni, lodi o processi brevi. Mi rimetterò alle Sue decisioni, visto che, assumendo su di sé il gravoso onere di tutti i poteri, ha deciso non solo di individuare gli illeciti, ma anche di giudicare i colpevoli e di punire con le Sue proprie mani i reprobi, strozzandoli.

Ho scritto un libercolo in cui ho falsamente affermato che in Campania, e non solo, opera un’organizzazione mafiosa a cui ho attribuito il nome di fantasia di «Camorra» e, per vendere qualche copia in più, ho anche bugiardamente aggiunto che questa organizzazione è molto forte sul territorio e ha inquinato, ammazzato, corrotto, contraffato e tanto altro. Certo, non avendo scritto un best seller ma un libricino che oltre ai miei familiari avranno comprato quattro amici per non deludere le mie folli ambizioni di scrittore, potrei forse sperare nella Sua benevolenza. So, però, di avere due ulteriori colpe che non consentono attenuanti. Non solo sono un magistrato ma, per più di sedici anni, ho fatto il pm. e, obnubilato dal rosso della toga e istigato da cospiratori comunisti, ho contribuito a far condannare tanti innocenti per un delitto inventato nei retrobottega di partiti stalinisti che si chiama «associazione mafiosa». Ma oggi ho deciso di redimermi. Non accuserò solo me stesso e, pur guardandomi dal dichiararmi pentito (parola che so non ama molto), Le indicherò i corresponsabili delle mie malefatte. Come ricorderà dai suoi studi e come le potranno confermare i Principi del foro della Sua Corte, concorrono nei reati tutti coloro che, in qualsivoglia modo, hanno favorito la perpetrazione dell’illecito. Con me, quindi, andranno puniti in modo esemplare non solo tutti i funzionari della casa editrice comunista che ha pubblicato le mie fantasie deviate, ma anche l’Amministratore della stessa, che è un’omonima di Sua figlia Marina, ed il principale azionista che si è permesso, persino, di essere un Suo omonimo.

Palchi e palcoscenici

Dal Sito 19 luglio 1992
del 30 novembre 2009

di Salvatore Borsellino
(Fratello di Paolo Borsellino)


Ho ricevuto poco fa dagli organizzatori del NO-B DAY una mail che mi ha lasciato l’amaro in bocca. La mail riguarda la possibilità per un rappresentante del movimento delle Agende Rosse di potere avere voce all’interno della manifestazione attraverso un intervento dal palco. Secondo quanto mi viene riferito questo intervento non è stato previsto a causa della quantità degli argomenti trattati e del fatto che per l’argomento Giustizia sono stati già individuati come relatori un magistrato e un gruppo di ragazzi di Corleone.
L’adesione alla manifestazione del movimento delle Agende Rosse sarà evidenziata attraverso un video che ci è stato richiesto di produrre e la cui proiezione sarà il momento di inizio della manifestazione.
Fino a qui tutto bene, chi organizza una manifestazione ha tutto il diritto di deciderne i tempi e i modi, ma quello che mi ha ferito non è questo ma altro.

Innanzitutto la nostra adesione alla manifestazione è stata molto sofferta e non tutti i partecipanti al nostro movimento, che è un movimento di base, non codificato e non istituzionalizzato, sono stati d’accordo sin dall’inizio. Io stesso ho esitato a lungo prima di dichiararla e nella mia dichiarazione di adesione ho anche espresso i motivi della mia riserva. La paura di tanti di noi era ed è che quelli che sono i motivi fondamentali del nostro movimento, cioè la ricerca della Verità e della Giustizia per le stragi del ’92 e del ’93 e il sostegno dei magistrati che su queste stragi stanno indagando, ai quali vogliamo fare idealmente da scorta, venissero annegati all’interno delle altre mille motivazioni di questa manifestazione. Motivazioni per la maggior parte condivisibili ma alcune delle quali vengono adoperate dallo stesso capo del Govero e dal suo entourage per distogliere l’attenzione dalle cause più profonde per i quali non è ulteriormente accettabile che un individuo del genere possa rappresentare il nostro paese. Queste motivazioni avremmo avuto intenzione di esporre perché la nostra adesione fosse vista nell’ottica giusta.
Mi viene invece detto che “questa manifestazione non è stata organizzata… pensando a personaggi cui dare la parola, nessuno sabato salirà sul palco a parlare a ruota libera… si è cercato la persona che ne potesse parlare quasi a nostro nome, nel senso colui o colei che poteva dare voce alla nostra idea….”.
Ora io avevo creduto che questa, fosse una manifestazione nata dalla rete, di base, in cui, come è avvenuto a Palermo il 19 luglio e a Roma il 26 settembre, tutti potessero far sentire la propria voce e se, per ragioni di tempo, non tutti almeno tutti i gruppi, di base appunto, che avevano dato, e qualche volta in maniera sofferta, la propria adesione. Prendo atto che la cosa non sarà possibile e cercherò un’altra maniera di spiegare i motivi della nostra adesione. E poi io non sono e non mi sono mai sentito un “personaggio”, non ho mai considerato il palco come un palcoscenico e avrei preferito avere un fratello ancora vivo, non aver mai dovuto salire su un palco e avere potuto continuare a parlare solo ai miei computer come ho fatto fino a cinquanta anni, fino al 19 luglio del 1992.
Non capisco inoltre le ragioni per le quali sarà tenuta nascosta, sino all’ultimo momento la “scaletta” degli interventi, una cosa più adatta ad un palcoscenico che ad un palco, e spero che questo non serva a dire solo all’ultimo momento che solo ad alcuni movimenti sarà data voce e non ad altri e non dovere chiarire in anticipo a tutti i movimenti che hanno aderito alla manifestazione quali siano stati i criteri di selezione .
Poichè da parte mia ho sempre adoperato e tendo ad operare la massima trasparenza, riporto di seguito anche la lettera che ho inviato in risposta agli organizzatori.

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Cara ……., di equivoci ce ne sono stati sicuramente tanti ma non penso di potermene addebitare la colpa.
Il problema da parte nostra può semmai nascere dal fatto che quello delle Agende Rosse è assolutamente un movimento di base, non codificato e non istituzionalizzato, fatto di tante persone che nutrono gli stessi sentimenti e gli stessi ideali e che per questo si sono ritrovati insieme a piazza Farnese, a Palermo il 19 luglio, a Roma il 26 settembre, si ritrovano attraverso la rete e dalla rete fanno partire le loro iniziative. Proprio per questo ci sono tante, moltissime persone che parlano come appartenenti al popolo delle Agende Rosse ma nessuno, come ho ribadito in un mio recente intervento sulla rete, su FB e sul sito www.19luglio1992.com dal titolo "L'utopia delle Agende Rosse" può parlare nome del movimento delle Agende Rosse.
Forse è un'utopia, lo ho già detto nel mio post di cui sopra ma io ritengo che quello delle Agende Rosse sia un movimento di base e che tale debba restare.
L'adesione alla manifestazione del NO-B DAY è stata molto sofferta, essendo gli obiettivi principali del nostro movimento quelli di fare si che vengano alla luce i veri responsabili delle stragi del '92 e del '93, di far si che vengano riaperte delle indagini e possano essere istruiti i processi su quelle stragi, da sempre bloccate o conclusi, come quello sull'Agenda Rossa, con sentenze di assoluzione che non tengono conto neanche delle prove fotografiche del reato. Abbiamo quindi a lungo pensato se dare la nostra adesione ad una manifestazione di carattere prevalentemente politico che ha come obiettivo quello di chiedere le dimissioni del capo del Governo per un insieme di motivi che in parte condividiamo e in parte consideriamo non essenziali, anzi in qualche caso tendenti a coprire e a far perdere di vista i tragici motivi che richiedono le dimissioni del capo del Governo
Parecchi degli aderenti al nostro movimento non hanno infatti aderito alla manifestazione ma noi abbiamo ritenuto lo stesso di farlo perché convinti che si trattasse di una manifestazione di base, come quella del 26 settembre a Roma nella quale tutte le persone, confluite a Roma a proprie spese, che hanno chiesto di parlare per esprimere le proprie idee, hanno avuto la possibilità di farlo.
Lo stesso avremmo voluto fare noi a Roma come movimento. Chiedevamo che non fosse soltanto esibito il nostro logo ed annunciata la nostra adesione, con la richiesta, ma che ci fosse possibile anche spiegare i motivi della nostra adesione.
Non siamo un movimento folkloristico e non crediamo che basti l'utilizzo del nostro grido di RESISTENZA a fare da trailer alla manifestazione per spiegare i motivi dellla nostra adesione per la quale stiamo anche subendo da più parti, e non solo dall'esterno, delle critiche di strumentalizzazione, delle quali, almeno di quelle esterne, peraltro non ci curiamo. Di quelle interne invece ci curiamo, e anche molto, e non avremmo quindi voluto che certe perplessità tra gli aderenti al nostro movimento, restassero senza una risposta.
Vogliamo poi sperare che la possibilità di esprimere le nostre motivazioni, che ci viene negata, non venga invece concessa ad altri movimenti più istituzionalizzati e il clima di segretezza, che non comprendiamo e che non condividiamo, che viene mantenuto intorno alle persone a cui verrà invece concesso di avere voce, non contribuisce a dissolvere la nostra inquietudine e le nostre perplessità.
Detto questo, dato che abbiamo sempre cercato di non alimentare voci di dissidi e dissapori all'interno della Società Civile, aderiamo alla vostra richiesta di proiettare il video che alcuni di noi hanno preparato.
Cercheremo però, all'interno della manifestazione di essere simbolicamente, e quindi anche fisicamente, compatti intorno alla nostra bandiera, che è e resta l'Agenda Rossa, attorno alla quale si ritroveranno tutti quelli che, come appartenenti idealmente al nostro movimento vogliono caratterizzare la nostra partecipazione come ispirata ai squenti motivi.
In primo luogo l'affermazione che il capo del Governo non possa restare al proprio posto mentre su di lui si addensano forti indizi di essere uno dei protagonisti, e senz'altro lo "utilizzatore finale" dello scellerato patto che ha coinvolto pezzi dello Stato e la criminalità organizzata e che la criminalità organizzata ha portato addirittura ai vertici delle nostre istituzioni
In secondo luogo la riaffermazione della nostra volontà di costituire una scorta ideale e di dare la nostra solidarietà e il nostro sostegno a quei coraggiosi Giudici che queste terribili trame stanno portando alla luce.

Le “Agende Rosse”

Chi si vergogna della Piovra

Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 novembre 2009

di Adriano Sofri
(Giornalista)


Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, cui è toccato di inaugurare un convegno indetto a Racalmuto a vent'anni dalla morte di Leonardo Sciascia, col delicato titolo "Inquisizioni di ieri e di oggi", ha detto di sentire la mancanza "di un intellettuale antimafioso e anticonformista come Sciascia". La sento anch'io, e siccome Sciascia era davvero antimafioso e anticonformista non mi azzarderei a ipotizzare che cosa penserebbe e direbbe se fosse vivo.

Non resta che decidere che cosa pensiamo e diciamo noi, che vivi siamo, per il momento. E specialmente i molti fra noi che non sono specialisti di mafia e antimafia, ma persone profane di cittadinanza italiana e di sentire comune. Noi che non abbiamo seguito con dedizione quotidiana le cronache di mafia, e che stentiamo - stentano perfino gli specialisti - a districarci dentro vicende che durano molti anni, impegnano molti tribunali, riempiono decine di migliaia di pagine giudiziarie. Però chi di noi ha l'età, ricorda la sequenza tremenda dell'assassinio di Falcone e di Borsellino e della loro gente come un momento capitale - un colpo al cuore paragonabile forse solo alla morte di Aldo Moro. Allora in tanti dimenticarono di tenere famiglia, in tanti si sentirono chiamati oltre il calcolo personale a ribellarsi all'infamia, e impegnati a sostenere oltre ogni riserva chi in quella temperie aveva il compito di battersi contro la ferocia onnipotente di Cosa Nostra. Quel sostegno era mancato, per usare un eufemismo, ai due magistrati amici, ai loro cari e ai loro fedeli protettori.

È passato del tempo, molte cose sono cambiate, la commozione è scivolata in fondo ai cuori e lo scetticismo delle convalescenze ha ripreso i suoi diritti. Ma il ricordo di quei giorni dovrebbe essere sempre pronto a riaffiorare. La recita di Olbia di Silvio Berlusconi sembra mostrare che quel ricordo sia stato del tutto sfrattato dalla sua mente. Ciascuno, sentendosi accusato e addirittura braccato, può scegliere uno stile di difesa: ma infilare una collana triviale quanto e più del solito di barzellette sulla mafia, vantare una smentita sulla propria iscrizione in un registro di indagati - del tutto pletorica - e fare dell'umorismo da strapazzo sugli autori della Piovra e dei libri di mafia, eccede davvero le aspettative più desolate.

Qualche giorno fa, in un'intervista a questo giornale, Carlo Ginzburg ha spiegato di sentirsi italiano quando si accorge di vergognarsene. In altri paesi si può scandalizzarsi e indignarsi, ma solo nel proprio si prova una profonda vergogna per parole e gesti altrui. Le parole di Berlusconi a Olbia fanno vergognare di essere italiani. Ieri una nota di Palazzo Chigi ha tentato di rimediare proclamando fra gli innumerevoli record di Berlusconi e del suo governo il merito più grande nella storia quanto alla lotta contro la criminalità organizzata. La pretesa rodomontesca è l'altra faccia delle barzellette del giorno prima. Berlusconi, che si vanta l'uomo più lontano dalla mafia sulla faccia della Terra, non sa di che cosa parla, e l'attenuante che gli è capitato di invocare ai suoi eventuali rapporti con la mafia sta esattamente in questa rivendicazione di non aver saputo e capito di che cosa si trattasse.

L'argomento secondo cui la Piovra e in generale il chiasso antimafioso nuocerebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia nel mondo, da lui usato altre volte in passato (e anche da Totò Riina, sia detto senza affratellarli) significa una minimizzazione immorale e incresciosa, e continua la magnanima tradizione dell'epoca che Andreotti, per essa prescritto, definì una volta come del "quieto vivere" con la mafia. L'epoca in cui la linea dello Stato era che "si ammazzassero pure fra loro" - se non che ammazzavano copiosamente anche fuori di loro, e che fra loro si era accomodata una parte della politica e dello Stato. Quanto all'origine delle sue ricchezze, Berlusconi non fu alieno in passato da risposte disinvolte come quella che lui i soldi li aveva presi da tutti: un ritratto peculiare di che cosa sia un imprenditore secondo lui, e che purtroppo si attaglierebbe anche a molti altri grandi imprenditori, e non solo siciliani né solo in Sicilia.

Il cosiddetto stalliere Mangano, infine, era arrivato da lui solo perché raccomandato da persone di fiducia, e per garantire una legittima protezione del giardino dai cattivi vicini e della sua famiglia dai malintenzionati sequestratori. Sulla tomba di Mangano - l'ho vista nel film di Deaglio, sta in un cimitero abbandonato - una lapide recita così: "Hai dato un valore alla storia degli uomini non barattando la dignità per la libertà, hai dato un significato alla nostra vita...". Mangano rifiutò in effetti di guadagnarsi una liberazione, che per lui non voleva dire che andare a morire fra i suoi invece che in galera, dicendo ai magistrati quello che i magistrati gli chiedevano di dire. Fu davvero un eroe, ma della mafia, e per giunta di quella mafia mitologica che è crollata non appena qualcuno ha fatto sul serio, e ha mostrato di capire di che pasta era fatta.

La caduta della Cosa Nostra delle stragi, come del terrorismo politico, è stata soprattutto il tracollo di persone la cui tempra umana non valeva due soldi: e tanto meno valeva quanto più sanguinaria si mostrava. La proliferazione di "pentiti" che, a differenza di Mangano, sono pronti a barattare la propria "dignità" - e a trovare nello scambio anche trascinanti gratificazioni devozionali - con affari come andare a vivere, piuttosto che a morire, fuori da una cella, o a realizzare, come forse i fratelli Graviano, il loro particolarissimo recupero crediti, o semplicemente (non è poco) sfuggire alla tortura del 41 bis, mette chi ebbe a che fare con la mafia, volendo sapere o no di che cosa si trattasse, in una condizione insuperabile: se non in un tribunale, senz'altro nel proprio stato civile. Governare in questa condizione è un'impresa tremenda, suffragi o no: se non altro perché non si governa che per protrarre il momento della propria precipitazione, ciò che solo una monarchia assoluta può assicurare, e a condizione che i sudditi non si innamorino, con la volubilità che è loro, di un Ottantanove, o di un suo anniversario.

Il Pdl accelera sul concorso esterno una legge ad hoc per neutralizzarlo

Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 novembre 2009

di Liana Milella
(Giornalista)


ROMA - Una cosa per volta. Perché due leggi ad personam contemporanee sono un'esagerazione, sono "troppo" perfino per il Cavaliere. Soprattutto per evitare il moltiplicarsi degli attacchi e per dosare bene mosse e tempi. Il calendario era questo: prima il processo breve, per fulminare i due dibattimenti milanesi del Cavaliere, Mills e Mediaset, poi il concorso esterno in associazione mafiosa per chiudere i conti in anticipo con eventuali imputazioni di quel genere. E per fare un regalo a Dell'Utri, che non ha mai goduto di una legge cucita addosso a lui, e ai Consentino, ai tanti politici e imprenditori locali cui pende addosso un'inchiesta per un simile delitto. Mai, comunque, un intervento del governo, proprio com'è avvenuto per il processo breve, ma sempre un'iniziativa di qualche deputato o senatore della maggioranza.

Quella sul concorso esterno doveva essere la carta segreta da giocare subito dopo aver chiuso la partita del processo breve. Il tam tam di una possibile incriminazione per Berlusconi e Dell'Utri ha rivoluzionato i giochi. In ogni numero il Foglio martella su quello che Giuliano Ferrara, nelle vesti dell'elefantino, ancora sabato ha definito "il reato chiacchiera". Da giorni se ne parla con insistenza tra i berluscones. Mercoledì 25 novembre Repubblica scrive che è allo studio l'ipotesi di "normare" l'imputazione di aiuto esterno alla mafia, inventata da Giovanni Falcone e usata tante volte negli ultimi 15 anni, con l'obiettivo di creare un vero e proprio reato rispetto alla costruzione giurisprudenziale di oggi. Nulla di offensivo nei confronti del governo, visto che la Cassazione nel '94 ha pronunciato la prima sentenza importante sulla questione e le riviste giuridiche traboccano di decine e decine di dotte esercitazioni in materia. Nel codice penale non esiste un articolo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Nella maggioranza c'è chi pensa di mettercelo ma con paletti ben precisi. Tutto qui. Certo, poi bisogna vedere gli effetti sui processi in corso perché il nuovo reato, di certo più favorevole, si applica subito.

Palazzo Chigi reagisce inviperito, smentisce drasticamente che "il presidente del Consiglio" stia pensando a "modificare" la norma, che in realtà non esiste e quindi non può essere modificata. Forse temono che una simile iniziativa, anche solo ventilata, possa accelerare gli eventuali passi delle procure. Il Guardasigilli Angelino Alfano, quando gli chiedono se è vero che il governo vuole modificare il 416bis o se c'è l'intenzione di sganciare il reato di concorso (articolo 110 del codice) da quello di associazione mafiosa (416bis), nega e vanta le sue battaglie legislative contro la mafia a partire dal carcere duro, il 41 bis. Ma lo scenario non è questo, che ben può essere negato, ma tutt'altro.

È quello che, dopo l'uscita in tv di Dell'Utri, spiega Piero Longo, senatore del Pdl, avvocato di Berlusconi con Niccolò Ghedini, che a Padova condivide con lui lo studio e che gli è "padre" nel mestiere. Quindi non una voce "qualsiasi" nella maggioranza. Longo parla di due strade. La prima, quella "politica", è "l'interpretazione autentica del 416bis in cui si precisa che non è possibile il concorso esterno perché già esiste il reato di assistenza agli associati, il 418 del codice penale". La seconda strada, che Longo definisce "un ripiego", "una resa": "Si regolamenta il concorso esterno".

E questo è il compromesso che i berluscones vogliono raggiungere. L'obiettivo, come confermano a Repubblica autorevoli fonti del Pdl, è "palettare" il reato, stabilire cosa può essere concorso e cosa non può esserlo, costringendo i magistrati a muoversi in un percorso giuridico più stretto e non più passibile di ulteriori interpretazioni giuridiche che possono allargare o restringere la figura del concorso medesimo. Per usare le parole di Dell'Utri, evitare "di incriminare chiunque non sia criminale". Ma tutto questo a tempo debito. Prima il processo breve, poi il lodo Alfano in veste costituzionale, infine il concorso esterno tipizzato.

Tutto con le modalità d'intervento già rodate - le leggi ad personam non arrivano direttamente dal governo ma da singoli parlamentari - che hanno il vantaggio di consentire a palazzo Chigi di smentire quello che in realtà, nel frattempo, viene fatto. È il caso della prescrizione: mentre Alfano la smentiva, Ghedini la studiava, ed ecco saltar fuori la prescrizione del processo. Per lo scudo congela processi e per il concorso esterno non sarà il governo a muoversi ma singoli parlamentari. Tutto, a questo punto, a brevissima scadenza.

domenica 29 novembre 2009

I fatti oscuri e il dovere di governare

Dal Quotidiano La Repubblica
del 29 novembre 2009

di Eugenio Scalfari
(Giornalista)


TRA LE tante afflizioni che la "fin du règne" berlusconiana ha procurato al Paese c'è stato anche un crescente scontro tra le nostre massime istituzioni e soprattutto tra il presidente del Consiglio da un lato e il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e la magistratura dall'altro. Nel momento più aspro del confronto anche il cosiddetto triangolo che raccorda il Quirinale con i presidenti delle due Camere ha dimostrato segni di scissura, con Gianfranco Fini solidamente schierato con il Capo dello Stato e Renato Schifani più sensibile ai "lai" del capo dell'Esecutivo.

Dobbiamo all'estrema prudenza di Giorgio Napolitano se queste tensioni si sono parzialmente attenuate, ma lo dobbiamo anche al vasto capitale di credibilità e di fiducia che il Quirinale raccoglie nella pubblica opinione, scoraggiando chiunque volesse impegnare un duello all'ultimo sangue con la nostra massima autorità di garanzia. Sarebbe un duello dall'esito assai prevedibile: gli italiani infatti hanno sempre avuto bisogno di esser rassicurati sulla propria qualità di "brava gente".

Questo riconoscimento sta loro a cuore più di qualunque altro; sta a cuore agli adulti come ai giovani, alle donne come agli uomini, agli abitanti delle province settentrionali e a quelli del Mezzogiorno. Si possono avere opinioni diverse su questa particolare fragilità dell'anima italiana, ma non sul fatto che esista. Con la conseguenza che, in un ipotetico duello tra il Quirinale e l'inquilino di Palazzo Chigi, la palma della vittoria andrebbe al primo e non al secondo.
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Per Berlusconi metà degli italiani nutrono sentimenti di amorosa esaltazione; per Napolitano più del 70 per cento sente profondo rispetto e stima. A lui affiderebbero in custodia i figli e gli averi, all'altro no.
Del resto sentimenti analoghi e analoghe proporzioni del consenso gli italiani li hanno avuti per Carlo Azeglio Ciampi e per Sandro Pertini, per non citare che i più popolari e i più stimati. Questa è stata una fortuna non indifferente per il nostro Paese in una lunga e agitata fase di transizione che ha avuto luogo in tutta Europa e che, dopo oltre trent'anni, non è ancora finita.

Il duello dunque è scongiurato, almeno per ora. Ma ci si deve domandare perché Berlusconi non fa che riattivarlo al suo massimo quando tira in ballo i suoi personali interessi e quando è il primo a sapere che non avrà la forza di andare fino in fondo. Perché questa così invincibile coazione a ripetere? Non è un errore risollevare un tema che poi finirà assolutamente nel nulla?

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Il presidente Napolitano l'altro ieri è stato lapidario: commentando i giudizi del capo del governo sui magistrati di Firenze che lui accusa di incitamento alla guerra civile, ha osservato che un governo cade soltanto nel momento in cui il Parlamento gli nega la fiducia; altre cause non sono previste. Fin quando la maggioranza che sostiene il governo continua ad appoggiarlo non ci può essere crisi. Se ci fosse, spetterebbe al Capo dello Stato di arbitrarne i passaggi.

Non si poteva interpretare più chiaramente la situazione e bloccare le fughe in avanti di Berlusconi da un lato e dei i suoi più queruli detrattori (che fanno senza accorgersene il suo gioco) dall'altro. Naturalmente sia l'uno che gli altri si sono riconosciuti nelle parole di Napolitano, piegandole ognuno ai suoi intendimenti e alle sue convenienze. È un curioso destino quello del Quirinale: tutti gli danno ragione pur continuando ciascuno a proseguire nel gioco al massacro sul quale campano.

Questo è vero per tutti, ma in modo particolare per il capo del governo. Berlusconi non può accettare che la discussione politica si sposti dai suoi personali interessi a quelli del Paese. Se l'interesse generale avesse un peso adeguato, sarebbe assai facile concentrarsi su di esso: basterebbe che il capo del governo avesse preso atto della sentenza della Corte sulla legge Alfano, che affrontasse i processi concordando con il Tribunale l'iter delle udienze e ne attendesse l'esito con sereno rispetto. Tre gradi di giudizio non sono pochi. Nel frattempo governasse.

Ma è proprio questo che lo spaventa: governare, con questi chiari di luna. Decidere chi paga il disastro economico tuttora in corso, quale sarà la strategia di uscita dalla crisi, come dovrà cambiare l'industria, le esportazioni, gli investimenti, la divisione internazionale del lavoro. Ed anche come cambieranno il Welfare, la scuola, la ricerca, la giustizia, la pubblica amministrazione.

È passato un anno e mezzo e ancora il governo si tiene a galla con i rifiuti smaltiti a Napoli e le casette consegnate all'Aquila, mentre i disoccupati aumentano in modo esponenziale ed ad ogni pioggia mezzo Paese resta col fiato sospeso per sapere questa volta a chi toccherà.

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Intanto sono diventate di pubblico dominio le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia ai giudici che indagano in secondo grado di giurisdizione sul senatore Dell'Utri, co-fondatore di Forza Italia. I colleghi D'Avanzo e Bolzoni ne hanno ampiamente scritto con la compiutezza che il caso richiede. Farò a mia volta alcune osservazione nel merito.

Nei mesi scorsi si è a lungo parlato dei vizi privati del premier, diventati pubblici per sua scelta nel momento in cui negò l'esistenza di fatti documentati. Poi se ne continuò a parlare perché i suoi insostenibili dinieghi lo avevano messo in una situazione di ricattabilità assai difficile per chi occupa un'altissima posizione istituzionale.

Ora si profila un tema ancora più delicato: riguarda l'atteggiamento del presidente Berlusconi nei confronti dell'organizzazione mafiosa "Cosa Nostra". Che cosa dicono le carte fin qui disponibili di quel dossier? Oppure, chi fa il mestiere del giornalista, deve liquidare il problema giudicandolo un pettegolezzo senza interesse?

La risposta è evidente: la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono strutture criminali che hanno raggiunto in Italia dimensioni esorbitanti. Seminano il terrore in tutto il Mezzogiorno e altrove, partecipano a cartelli internazionali sulla produzione e distribuzione di droga, controllano decine di migliaia di "soldati", controllano anche istituzioni finanziarie, riciclano migliaia di milioni di euro e di dollari, svolgono in nero enormi transazioni. Si può far finta di non vedere? Non si deve accertare se eventuali contatti tra politica e criminalità siano esistiti ed esistano, oppure se si tratti di calunnie che meritano esemplari punizioni?

Dunque è lecito occuparsene. Anzi è doveroso. Giulio Andreotti ebbe alcuni contatti con le strutture criminali di allora. Li ebbe da politico che doveva fronteggiare una situazione di estrema gravità. Parlarono alcuni pentiti. La magistratura inquirente trovò riscontri. Si aprirono i processi. Nel frattempo il quadro era cambiato e gli interlocutori anche. Molti protagonisti caddero sul campo in quella guerra, alcuni pagando col sangue il loro coraggio, altri pagando col sangue la loro doppiezza.

Andreotti seguì tutte le udienze dei processi. Aveva un libretto sul quale scriveva i suoi appunti man mano che il dibattimento si svolgeva. Arrivava in aula per primo e usciva per ultimo dopo aver salutato il presidente e il pubblico ministero. Fu condannato con gravissime motivazioni. Poi, nei successivi gradi di giurisdizione, le sentenze furono riviste e ritoccate. Infine nell'ultimo passaggio fu assolto, in parte con formula piena e in parte con formula dubitativa. Il vero problema di Andreotti era di natura politica, non giudiziaria. Il giudizio politico restò diviso e tale resterà anche per gli storici che verranno. Quello giudiziario fa ormai parte delle materie giudicate. Ma resta che quell'uomo non fuggì dai processi e questo è un riconoscimento positivo che si è guadagnato.

Sapremo tra pochi giorni, alla ripresa del processo Dell'Utri di secondo grado, se le dichiarazioni dei pentiti indurranno i magistrati ad occuparsi anche del presidente del Consiglio oppure no. I pentiti di mafia parlano quasi sempre un gergo allusivo di non facile interpretazione, che può diventare più chiaro solo in dibattimento. Dare giudizi sul materiale disponibile è quindi azzardato. Ma ci sono aspetti che emergono con chiarezza.

1. I pentiti, nel caso specifico, sono personaggi di discreto livello ma non di primissimo piano. Del resto è sempre stato così salvo forse nel caso Buscetta.

2. I pentiti sono sempre stati messi al bando dai loro capi e da tutta la Cupola mafiosa. Definiti infami. Sottoposti ad intimidazioni continue e terribili. Infine, magari a distanza di molti anni, sono stati raggiunti e puniti con la morte. Nel caso attuale si sta invece verificando qualche cosa di estremamente anomalo: i capi mafiosi tirati in ballo dai pentiti non li hanno né sconfessati né intimiditi. Al contrario. Il loro pentimento è dunque condiviso? Oppure operano come esecutori di un disegno organizzato con i loro stessi capi?

3. Il piano, secondo le dichiarazioni dei pentiti, avrebbe come finalità effettiva quella di "riscuotere" dalla Fininvest il capitale e gli interessi, debitamente rivalutati, che sarebbero stati anticipati a quella società come fondi riciclati. I prestatori sarebbero appunto i fratelli Graviano della mafia del rione Brancaccio di Palermo.

4. È noto che la Fininvest fu fondata da alcune società Fiduciarie delle quali risultavano fondatori alcuni improbabili prestanome. Col passare degli anni alcune di tali Fiduciarie furono disvelate, risultando intestate a Berlusconi e ai suoi familiari. Ma le posizioni dettagliate non sono ancora completamente chiare.

5. Occorre tenere presente che Fininvest è il socio di controllo di Mediaset, di Mondadori, e di una serie assai ampia di società il cui valore ammonta attualmente a molte decine di miliardi di euro nonostante la caduta nelle capitalizzazioni dovuta alla crisi mondiale.

6. Si discute e si mette in dubbio da parte dei difensori di Berlusconi la validità di un reato come quello di concorso esterno in associazione mafiosa, non contemplato dal codice penale ma ormai da gran tempo legittimato da una serie costante e conforme di pronunce giurisprudenziali della Cassazione. Il reato di associazione esterna rappresenta (e chiunque ha un minimo di familiarità con questi problemi lo sa) il punto centrale di penetrazione della mafia nella società civile. L'estrema pericolosità dell'intera struttura mafiosa è dovuta al fatto che attraverso una zona grigia di personalità estranee alle organizzazioni criminali ma in contatto con esse la penetrazione si effettua e la mafia entra nei recessi più reconditi delle decisioni amministrative del pubblico potere. Per conseguenza ogni discorso sulla improprietà di un reato non previsto da un codice penale più che antiquato è priva di qualunque fondamento.

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È importante mettere in luce questioni di questa delicatezza. È altrettanto chiaro che l'interesse ad un chiarimento di tali questioni non riguarda soltanto la democrazia italiana ma anche Silvio Berlusconi e la sua famiglia. Sicché risulta assai poco comprensibile il continuo sforzo non solo a far rinviare i processi ma ad abbreviarne la prescrizione. Quale chiarimento porta con sé un processo prescritto? Nessuno. Resterà per sempre ignota la zona oscura all'origine delle fortune imprenditoriali di Berlusconi.

Di tutto questo si parla non da quindici anni ma da molto prima. Berlusconi era ancora ben lontano dal voler entrare in politica, stava passando dal settore immobiliare nel quale aveva fatto fortuna al mondo delle Tv. Era pieno di soldi e con essi praticava audaci politiche di "dumping" sulle tariffe e i contratti pubblicitari. Lo sa bene Dell'Utri che era della partita insieme a Verdini. Ma lo sapevamo anche noi che all'epoca eravamo suoi concorrenti insieme alla Mondadori di Mario Formenton.

Ricordo queste cose perché è ormai entrato a far parte dei luoghi comuni il fatto che i processi contro di lui cominciano con il suo ingresso nella politica. In realtà le ipotesi criminose sono molto più antiche. Questa di cui ora si parla risale nientemeno che a trenta anni fa. La legge sul conflitto di interessi avrebbe offerto il destro di chiuderla. È colpa di una parte della sinistra se non fu fatta ma è responsabilità pienamente sua averla sempre testardamente impedita.

Ha ragione Napolitano quando dice che non è per via di processi che si elimina un avversario politico fin tanto che gli rimane la fiducia della maggioranza. Ma è altrettanto vero che gran parte di quella fiducia si verifica meglio alla luce di processi e sentenze che mettano in chiaro passaggi rimasti per troppi anni oscuri e inquietanti. Noi pensiamo che sia questa la buona democrazia. Intanto, il governo ha il diritto e il dovere di governare. Se cominciasse a farlo invece di restare perennemente in "surplace" sarebbe un buon risultato.

Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest

Dal Quotidiano La repubblica
del 29 novembre 2009

di Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo
(Giornalisti)


IL RACCONTO di Repubblica di come i mafiosi di Brancaccio ritengano di avere "un asso nella manica" da giocare contro la Fininvest ha provocato le proteste di Marina Berlusconi, presidente della holding, e l'annuncio di azioni penali e civili di Mediaset. La protesta di Mediaset è temeraria.

Forse per un equivoco o soltanto per offrire ai giornali della Casa un titolo aggressivo, sostiene che, nell'inchiesta, ci sia scritto: "il 20 per cento di Mediaset appartiene alla mafia". È falso. Nessuno ha scritto una frase di questo genere. Nessuno poteva scriverla. Mediaset nasce come società quotata in Borsa soltanto nel 1996 mentre la cronaca dà conto, per la prima volta, degli interrogatori dei mafiosi di Brancaccio che raccontano vicende degli anni ottanta e primi anni novanta, comunque precedenti al 27 gennaio 1994, quando Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati a Milano. L'inchiesta si occupa di Fininvest, non di Mediaset. Di quel che i mafiosi riferiscono della Fininvest (detiene il 38,618 per cento di Mediaset).

Gaspare Spatuzza rivela ai pubblici ministeri di Firenze che "Filippo Graviano mi parlava come se Fininvest fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua". È una dichiarazione che ripropone la questione mai accantonata della provenienza dei capitali che hanno favorito l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi che di suo - è noto - risorse non ne aveva a disposizione. Per sintetizzare i dubbi che ancora ci sono su quell'inizio, Repubblica ha ritenuto di citare una breve frase dal libro di Paolo Madron,Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer: "Sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle holding che controllano Fininvest. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire" (pag.137).

Contro questa frase muove oggi con indignazione e qualche sovrattono Marina Berlusconi. Lasciamo in un canto i suoi insulti. La presidente della Fininvest dichiara: "Il 100 per cento della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti, appartiene alla nostra famiglia, a Silvio Berlusconi e ai suoi figli. Così è oggi e così è da sempre, non c'è mai stata una sola azione della Fininvest che non facesse capo alla famiglia Berlusconi". Se così è, perché la Fininvest non ha mai considerato calunnioso e diffamatorio il libro di Madron, diventato nel tempo anche autorevole direttore di Panorama Economy, periodico della Casa? Perché se ne duole soltanto oggi? Possibile che le sia sfuggito un libro pubblicato da una casa editrice dal 1995 di proprietà della Mondadori?

Di quel lavoro, qualcosa si sa. Paolo Madron è forse il solo giornalista che abbia avuto modo di incontrare e intervistare a lungo il conte Carlo Rasini, patron della Banca Rasini che mise a disposizione del giovane Berlusconi fidejussioni, prima, finanziamenti, poi. Madron riesce a incontrare Rasini nella sua casa ai Bastioni di Porta Venezia, a Milano. La conversazione è lunga, piacevole e assai intrigante.

Il conte banchiere racconta come "in realtà, le città giardino di Berlusconi sono servite a qualche famiglia milanese per far rientrare le valigie di soldi depositate a suo tempo in Svizzera". Ricorda di come, un giorno, Berlusconi "va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi e che, se lui ci metterà una buona parola, potrebbero dargli fiducia". Rasini ne parla con il padre di Berlusconi, Luigi, che non vorrebbe. Ha paura che il figlio "resti schiacciato dalla sua ambizione". Ma Rasini, come ha fatto altre volte, non gli fa mancare il suo aiuto. "In fondo, quale migliore occasione per far tornare il denaro dal paese degli gnomi e farlo fruttare bello e pulito nelle mani di quel giovanotto che dove tocca guadagna?".

Ora Madron è a colazione da Carlo Rasini. Gli chiede conto di quei finanziamenti e il conte banchiere gli rivela che Berlusconi ha restituito, di quelle somme, soltanto l'ottanta per cento. "E l'altro venti?", chiede Madron. Rasini sorride e gli dice: "L'altro venti per cento non è stato restituito; so come sono andate le cose e a chi appartiene quel venti per cento, ma non glielo dirò". Marina Berlusconi, nel suo sdegno, sostiene ancora: "Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla procura di Palermo si sono concluse con l'unico possibile risultato: (...) nell'azionariato Fininvest (...) non esistono zone d'ombra".

L'affermazione è imprudente, se si legge la sentenza della II sezione del Tribunale di Palermo che ha condannato Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi. La consulenza dell'accusa, scrivono i giudici, nonostante la "parziale documentazione" messa a disposizione, "evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984. [Questa conclusione] non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", il professor Paolo Maurizio Iovenitti, docente alla Bocconi di Finanza mobiliare e Analisi strategiche e valutazioni finanziarie.

Iovenitti ha ammesso in aula che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti". Scrivono allora i giudici: "Non è stato possibile, da parte dei consulenti [del pubblico ministero e della difesa], risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all'origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. (...). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame [e], pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest, non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie "anomale" e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest".

Naturalmente sull'intera questione, avrebbe potuto far luce con autorevolezza Silvio Berlusconi. Si sa come andarono le cose. Interrogato il 26 novembre del 2002 a Palazzo Chigi, il presidente del consiglio si è "avvalso della facoltà di non rispondere". Così le perplessità sulle origini della fortuna di Berlusconi restano ancora vive. Ora che Cosa Nostra sembra ricattare il premier, sarebbe necessario illuminare quel che ancora oggi è oscuro, più che gridare a un "disegno politico di annientamento".

L’Italia s’è persa

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 29 novembre 2009

di Furio Colombo
(Senatore PD)


Non so che cosa vede guardando l’Italia dall’alto del Quirinale. Non so come arriva lassù il grido di Berlusconi “I giudici ci spingono sull’orlo della guerra civile”. Quella che segue è una libera interpretazione. Il presidente della Repubblica pronuncia un discorso sull’Italia, il suo Risorgimento, la sua unità, la sua Costituzione, il suo ruolo nella storia contemporanea, la sua fiducia nel futuro, preparato da coloro che hanno dato passione e vita per fare e poi per liberare il paese. Il presidente della Repubblica si volta e l’Italia non c’è. I notabili si tengono lontani dai progetti di celebrazione dell’unità d’Italia. C'è poco tempo per essere pronti, ma non ci sta pensando nessuno. I cittadini sono distratti. O sono sui tetti a reclamare il lavoro. Oppure sono pronti a votare di nuovo come hanno già votato perché nessuno finora gli ha raccontato con forza e chiarezza la vera storia.

L’Italia non c’è, tanto che il tricolore viene sventolato allo stadio di Bordeaux per gridare (lo gridano tifosi di passaporto italiano): “Se saltelli muore Balotelli”. Si riferiscono al cittadino italiano e nero Mario Balotelli. Smettono quando i dirigenti della nobile squadra Juventus fanno notare che potrebbero esserci conseguenze sul punteggio della squadra. Quanto all’Italia, non parla nessuno. Un mare di decisioni razziste di sindaci e di governo nega che sia mai esistito un paese rispettabile con quel nome. E la Storia di questo paese (proprio la Storia, con l’iniziale maiuscola, quella di Mazzini, Gioberti, Garibaldi, quella della Repubblica Romana, del Risorgimento, della Resistenza) finisce lì. Adesso è un paese che intrattiene saldi e proficui rapporti (forse non proficui per tutti, certo per alcuni) solo con la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi. È un paese che non ha peso, prestigio o immagine in Europa. Tanto che viene spinto indietro nella corsa alle nomine del governo europeo senza perdere tempo in spiegazioni. Un paese così estraneo ai nuovi equilibri del mondo che si precipita, non richiesto, a offrire soldati – come in un rito medievale – per farsi notare e sperare di incassare almeno un generico elogio. Il presidente della Repubblica si volta e non trova l’Italia.

La racconta lo storico Lucio Villari nel libro “Bella e perduta, l’Italia del Risorgimento” (Laterza, 2009). Racconta delle persone, degli anni, degli eventi che hanno costruito dal niente e collocato con forza in Europa un paese che prima non c’era. Ma è bene non equivocare. L’autore non sta ripetendo il rito che ormai è diventato costume: gli intellettualitacciono, scrivono, depositano in silenzio un nuovo libro e tornano a uscire discretamente di scena perché sanno o sentono che nell’Italia di questi anni non hanno – e preferiscono non avere – alcun ruolo. Lucio Villari, con il suo testo, stila l’atto di morte dell’Italia che narra, fatta di eroi nobili ed eroi popolani, di soldati e volontari, di poeti e contadini, di maestri e scolari, di celebri e ignoti, di nomi di strade e di memorie comuni. Ogni capitolo certifica che non c’è più niente di ciò che fino a poco tempo fa molti di noi hanno studiato a scuola, la parte bella e fondante di un nuovo Stato-nazione in Europa. Il presidente della Repubblica si volta e trova di fronte a sé un paesaggio da Piranesi, reso più squallido dal protagonismo perverso di chi adesso fa la voce grossa. Il nord è dominato da bande secessioniste che guadagnano sugli immigrati e poi li perseguitano. Lo fanno con leggi che riescono ad ottenere governando da una capitale che chiamano “Roma ladrona”. Il sud è corroso da una feroce criminalità organizzata, che ha i suoi emissari nei governi locali ma anche – come ci informa la magistratura – nel governo di Roma. Il nord viola apertamente la Costituzione, frantumando non solo lo Stato-nazione Italia, ma anche le regioni, secondo i dialetti e le ordinanze crudeli e distruttive dei sindaci-padroni contro gli zingari, contro gli immigrati, contro gli italiani che si ostinano a parlare italiano. Il sud sta pensando a un suo governo che vuol dire protezioni, privilegi, banche e rifiuto delle leggi. Il governo di Roma è un centro di affari personali a cui piega tutta l’attività del Parlamento e ciò che resta della vita internazionale italiana. Il presidente della Repubblica si volta e non vede in molte aule comunali e in molti luoghi pubblici il suo ritratto che, fino a poco fa, era simbolo dell’unità del paese. Resta una croce che però non è simbolo di fraternità ma di divisione e persecuzione.

Leggete il libro “Italia bella e perduta” di Villari come si legge il testamento di ciò che è stata l’Italia. Provoca un’immensa nostalgia, ma non la fa rinascere. Una politica di opposizione, accanita e carica di passione, come il Risorgimento, come la Resistenza, potrebbe. Ma non ce n’è alcuna traccia.

“Il pendolo della politica e i nomi fantasma”

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 29 novembre 2009

di Giampiero Calapà
(Giornalista)


“Ci sentiamo presi in giro per l’ennesima volta. Sono anni che girano i nomi di Berlusconi e Dell’Utri attorno alle inchieste sui mandanti occulti delle stragi del ‘93, ma anche questa volta non ci toglieremo il dubbio, anche questa volta l’aria è cambiata improvvisamente ed è cambiata dopo l’intervento di Napolitano”. Usa queste parole Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione vittime di via dei Georgofili. Per lei gli ultimi sviluppi dell’inchiesta della Procura di Firenze sulla strage del ‘93 sarebbero stati condizionati dalla politica, anche da quanto il Quirinale ha detto sulla necessità che “la magistratura si attenga alle sue funzioni” perché “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza”.

Secondo lei, quindi, la procura di Firenze si sarebbe fatta condizionare?

Noi confidiamo nella magistratura, ma i giudici avranno i telefoni caldi, altrimenti non si spiega questa nuova frenata. È evidente l’azione trasversale in corso fin dal ‘93 con cui la politica cerca di nascondere la verità. Sono 16 anni ormai, che quando sembra che si sia arrivati al dunque, l’indagine vira su un altro pesce piccolo, di questo si tratta quando si parla di esecutori. Noi abbiamo sempre detto che non tutti gli esecutori materiali già noti furono condannati nel modo giusto. Ma questo non basta più. Vogliamo sapere chi tirava le fila dall’alto, lo dobbiamo ai nostri figli che abbiamo perso in via dei Georgofili il 27 maggio 1993.

Il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Quattrocchi, ha parlato di un altro esecutore, appunto. Però ha confermato che la nuova indagine debba rivedere il contesto generale che portò alle bombe.

Ottenere dopo tutto questo tempo uno o due ergastoli in più alla mafia non è il massimo del risultato per nessuno oggi. Dopo che a molti politici è ritornata la memoria, dopo che molti si sono improvvisamente ricordati nuovi particolari. Ma tutto questo non porta mai al vertice, noi non vogliamo dire che Berlusconi e Dell’Utri siano colpevoli. Vorremmo toglierci il dubbio, però. Alla fine il modus operandi è sempre quello: si rispolverano incartamenti dagli scaffali, si aggiungono altri incartamenti e poi si rimettono tutti negli stessi scaffali”.

Secondo lei, invece, in un momento di tale pressione, la Procura di Firenze non ha voluto in questo modo tutelare le indagini? Considerando anche che in passato le posizioni di Berlusconi e Dell’Utri furono già archiviate per mancanza di prove.

È possibile che questo sia il senso di quanto ha detto ieri Quattrocchi. È anche vero, però, che a furia di tutelare le indagini non siamo arrivati mai a niente. La mia impressione è che si sia ritornati indietro, che si sia frenato in un momento in cui stava di nuovo emergendo qualcosa di serio. Non riesco a spiegare diversamente la frenata del procuratore, arrivata nel giorno in cui i giornali di Berlusconi annunciavano invece che il premier e Dell’Utri sono indagati per mafia. Ora attendo di ascoltare le parole di Piero Grasso e dei magistrati di Palermo. Oggi noi saremmo dovuti andare in via dei Georgofili, con le telecamere di La7, per Exit, ma ci hanno fatto sapere che la trasmissione è stata rinviata. Tutti frenano, di nuovo.

STORIE DI TRITOLO CAVALLI E FORZA ITALIA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 29 novembre 2009

di Peter Gomez
(Giornalista)


A Firenze, quella notte, c'era un ragazzo affacciato a una finestra. Chi l’ha visto racconta che “urlava”, ma che “a un certo punto ci fu una fiammata e sparì”. A Firenze, quella notte, c'era una bimba. Aveva solo sei mesi e si chiamava Caterina. Dalle macerie della Torre del Pulci la estrassero dopo tre ore. Era come avvoltolata in un materasso. Sul viso aveva solo un graffio e per qualche minuto il medico che la soccorreva pensò di poterla salvare. Ma si sbagliava. A Firenze, in quella tiepida notte di maggio, morirono in cinque. E altri cinque se ne andarono esattamente due mesi dopo, il 27 luglio, a Milano. Uccisi da un'autobomba in via Palestro, mentre a Roma saltavano in aria due chiese e il presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, credeva che fosse in atto un colpo di Stato. Il centralino di Palazzo Chigi, forse perché sovraccarico di chiamate, non funzionava. I politici, fiaccati dalle indagini sulla loro corruzione e messi in ginocchio dagli avvisi di garanzia firmati dal pool di Mani Pulite, parlavano di terrorismo internazionale, di kommando arabi, di servizi segreti deviati. Solo l’ex segretario del Partito socialista Bettino Craxi sembrava capire. E ai giornalisti diceva: “Qualcuno vuole creare un clima di completa paura. Le bombe si propongono di aprire la strada a qualcosa, non di rovesciare qualcosa. Il potere politico è già stato rovesciato, o quasi”.

SCHEGGE E FRAMMENTI

Eccolo qui il racconto dell’estate del terrore. Eccoli qui quei fatti del 1993-94 ai quali, con “follia pura”, secondo il premier Silvio Berlusconi, “frammenti di procure guardano ancora”. Una lunga scia di sangue e tritolo che ufficialmente si apre nella Capitale 14 maggio ‘93 quando in via Fauro, il presentatore Fininvest, Maurizio Costanzo, sfugge per miracolo a un attentato dinamitardo. E che prosegue, dopo le bombe di Firenze, Milano e Roma, con l’assassinio di don Pino Puglisi a Palermo, con la mancatastragedicarabinierialloStadioOlimpico (“i morti dovevano essere cento” ha ricordato il pentitoGaspareSpatuzza)eiltentativodifarfuori con la dinamite lo storico collaboratore di giustizia, Totuccio Contorno, il 14 aprile del 1994.

ComenascalastrategiastragistadiCosaNostrace lo dicono ormai decine di sentenze definitive. Intorno al 1991 il capo dei capi Totò Riina, capisce che, nonostante le garanzie ricevute da un pezzo di Democrazia cristiana, attraverso l’eurodeputato Salvo Lima, il maxiprocesso, in cui lui stesso è stato condannato all’ergastolo, andrà male. In Cassazione il verdetto non sarà annullatoperchèilgiudiceGiovanniFalcone,che adesso lavora al fianco del Guardasigilli socialista Claudio Martelli, sta per imporre la rotazione delle sezioni specializzate in fatti di mafia. Corrado Carnevale, il giudice che allora tutti chiamavano “ammazzasentenze” verrà tagliato fuori. In provincia di Enna tra il novembre del 1991 e il febbraio del 1992, si tengono così una serie di vertici tra boss per cercare di recuperare terreno. «Durante gli incontri», ha raccontato il pentito Filippo Malvagna, «Riina fece presente che la pressione dello Stato contro Cosa Nostra si era fatta più rilevante e che comunque vi erano segnali del fatto che tradizionali alleanze con pezzi dello Stato non funzionavano più». Per questo l’allora capo dei capi decise «fare la guerra per poi fare la pace». Di sparare sempre più in alto per poi aprire una trattativa da una posizione di forza. Come in Colombia.

Vengono messi in calendario gli omicidi dei politici che la mafia considera traditori. Lima, del grande elettore democristiano e uomo d’onore Ignazio Salvo, più una lunga serie di leader di partito che verranno invece risparmiati: Martelli, Salvo Andò, Calogero Mannino e molti altri. Si discute dell’attentato a Falcone. Si parla della morte di personaggi dello spettacolo come Maurizio Costanzo e Michele Santoro. E intanto si ragiona di politica. Nel dicembre del ‘92, con due anni di anticipo rispetto alla creazione di Forza Italia, Leonardo Messina, ex braccio destro del capomafia della provincia di Caltanissetta, Piddu Madonia, racconta davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia, che “Cosa Nostra ha deciso di farsi Stato”. Riina infatti in quelle riunioni annuncia pure la nascita “di un partito nuovo”, formato da massoni e da colletti bianchi, con l’obiettivo di arrivare “alla creazione di uno Stato indipendente del Sud all’interno della separazione dell’Italia in tre Stati”.

IL CORTEGGIAMENTO DI CRAXI

MuorecosìFalconee57giornidopotoccaaPaolo Borsellino. Cosa Nostra è alla disperata ricerca di nuovi referenti politici. Attraverso l’ex sindaco VitoCianciminosonostateinoltratealloStatouna serie di richieste (il famoso papello), ma quello spiraglio di trattativa non ha portato a niente di concreto. E sta sfumando anche l’idea, coltivata almeno a partire dal 1987, di stringere un patto con Bettino Craxi. Il lungo corteggiamento avvenuto, secondo la sentenza che in primo grado a condannato Marcello Dell’Utri, attraverso i vertici della Fininvest è rimasto senza risultati.Certo,conilgruppodelbiscioneilegami - antichi - si sono consolidati. Ogni anno, come racconta il processo Dell’Utri, a Riina arrivano 200 milioni di lire in regalo. Soldi di cui parlano molti pentiti e di cui è stata persino trovata una traccia documentale. Un appunto nel libro mastro del pizzo della famiglia mafiosa di San Lorenzo in cui è annotato “ 1990 5 milioni regalo” (il denaro secondo i collaboratori di giustizia veniva diviso da Riina tra i diversi clan ndr). Ma Craxistaperesseremessomessofuorigiocodalle inchieste di Mani Pulite. Per la mafia continuare a

puntare su di lui non ha più senso. Che fare? L’unica speranza concreta è rappresentata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i due giovanissimibossdiBrancaccio.Dueragazzidalla faccia pulita che a Palermo controllano, attraverso prestanome, alcune delle più grandi imprese di costruzioni della città. A partire dai primi del ‘92 hanno cominciato ad andare spesso al Nord, o meglio a Roma e a Milano, dove hanno dei contatti importanti. Che parlino con Marcello Dell’Utri lo sostiene per primo davanti ai magistrati, già nel 1997, una loro testa di legno. L’ex funzionario della Dc, Tullio Cannella, e lo ribadisce adesso, con più chiarezza, il superpentito Gaspare Spatuzza. Si tratta però di dichiarazioni de relato. L’unico fatto certo è invece che Dell’Utri, a partire dal giugno del 1992, ha assoldato una serie di consulenti (lo dimostrano le carte sequestrate a Publitalia) per spiegare ai manager della concessionaria di pubblicità e a quelli di Programma Italia del banchiere socio di Berlusconi, Ennio Doris, i segreti della politica. Altrettanto incontestabili sono poi le continue telefonate e visite a Milano 2 di Gaetano Cinà, un uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), amico da una vita di Dell’Utri. Così mentre Dell’Utri ragiona di politica e, nel timore che le indagini di Mani Pulite portino al governo le sinistre, insiste sul Cavaliere perché scenda direttamente in campo, la mafia in Sicilia continua ad attaccare lo Stato. Il 15 gennaio del ‘93 accade però un imprevisto: Totò Riina finisce in manette. Suo cognato, Luchino Bagarella, raduna gli amici e dice: “Finché ci sarà un corleonese fuori si va avanti come prima”. La scelta è obbligata. Tra popolo di Cosa Nostra c’è molta insofferenza. Adesso bisogna pure convincere lo Stato a chiudere i supercarceri di Pianosa e l’Asinara, appena riaperti, e a eliminare il 41 bis. Il problema è che con Mani Pulite che impazza mancano interlocutori affidabili.

IL “SEGNALATORE”

Nonèchiarochidiaallamafial’ideadidistruggere i monumenti con le bombe. Cioè di fare azioni eclatanti che però non colpiscono (in teoria) le persone, ma le cose. Una delle piste battute dalla procura di Firenze negli anni ‘90, sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, portava sempre alla Fininvest. Ma, in assenza di riscontri indiscutibili, tutto è stato archiviato. Certi sono invece due fatti. A pretendere che le stragi avvenissero fuori dalla Sicilia è stato il grande protettore dei Graviano, il boss Bernardo Provenzano. Mentre la riunione operativa che ha preceduto gli attentati è avvenuta il primo aprile del‘93,inunvillinodiSantaFlavia, vicinoaPalermo,diproprietàdidi Giuseppe Vasile, un appassionato di cavalli, poi condannato per favoreggiamento dei Graviano. Vasileèundriverdilettanteecorre in pista con Guglielmo Micciché, il fratello di Gianfranco, che sarà poi coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Figlio di un vecchio uomo d’onore di Brancaccio, Vasile mette dunque a disposizione la sua abitazione per l’incontro in cui Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro - il giovane boss di Trapani fattore della famiglia del futuro sottosegretario agli Interni, Antonio D’Alì - ragionano di bombe. Durante il summit si decide che a colpire siano i Graviano, Matteo Messina Denaro e i loro uomini. Tutti loro partono per il continente e per mesi non hanno più contatti con Bagarella. Ma è a Palermo che avviene un fatto davvero strano. il 12 maggio, 48 ore prima dell’azione contro Costanzo, Vasile, con un amico titolare di una ricevitoria di totocalcio, entra nell’agenzia numero 27 del Banco di Sicilia, diretta da Guglielmo Micciché. I due chiedono a Micciché di cambiare 25 milioni in contanti in assegni circolari. L’operazione viene eseguita immediatamente. Gli assegni verranno poi utilizzatipertentarediaffittareunavillainVersilia doveospitare,presentandolisottofalsonome,sia i fratelli Graviano che Matteo Messina Denaro. Una vacanza che proseguirà almeno fino a luglio, mentre l’Italia viene messa a ferro e fuoco. Poi i Graviano partono di nuovo. Si dirigono a Porto Rotondo, dove resteranno per tutto agosto, mentre a poche centinaia di metri, nel suo buen retiro di villa La Certosa, Berlusconi trascorre lunghi fine settimana mettendo a punto il suo nuovo partito. Infine l’ultimo viaggio. La meta è Milano, dove i due fratelli verrano arrestati il 27 gennaio del ‘94. In quel periodo però si fa vedere in città anche l’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano. Il boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, e il Luchino Bagarella, lo hanno infatti incaricato di contattare il Cavaliere. Brusca, una volta pentito, racconta che a fine settembre né lui, né Bagarella, avevano più notizie dei Graviano. Per questo Mangano viene convocato d’urgenza e gli viene chiesto di riallacciare i suoiantichirapporti.Il2novembre,comerisultadalle agende sequestrate alla segretaria di Dell’Utri, l’ex fattore chiama il futuro senatore azzurro in quel momento impegnato negli ultimi preparativi di Forza Italia. Poi lo cerca di nuovo e spiega per telefono che tornerà a fine mese. Sulle agende si legge: «Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema personale» e ancora: «Mangano verso 30-11». L’incontro, come conferma Dell’Utri, avviene per davvero: “Di tanto in tanto”, dice il senatore, “Mangano mi veniva a trovare. Mi parlava della sua salute”. Non è chiaro invece, ma è altamente probabile, se a MilanoilbossincontriancheiGraviano.Disicuro in quei mesi tra la famiglia di Porta Nuova, capeggiata da Mangano, e quella di Brancaccio viene inaugurata una sorta di alleanza. Spatuzza ricorda che i Graviano gli chiesero di andare a Porta Nuova per risolvere un problema di ordine pubblico mafioso: punire dei ladri che si muovevano fuori dagli ordini del clan. Lui rimase sorpreso. Ma poi, quando nel gennaio del ‘94, Giuseppe Graviano gli disse di aver stretto un patto con Berlusconi e Dell’Utri, cominciò a capire.