martedì 24 novembre 2009

SE IL SENATO DICE SÌ, QUESTA VOLTA LA MAFIA SORRIDE

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 24 novembre 2009

di Nando Dalla Chiesa
(Professore all'Università statale di Milano)


Hanno sempre chiesto tre cose. La fine del carcere duro, l’affossamento della legge sui collaboratori di giustizia, la riduzione a burla della confisca dei beni. A ogni interlocutore politico, da quindici anni, i mafiosi hanno presentato questo menu. E il potere vero, quello che mescola ribalta e penombra, non ha mai detto no evangelici. Ha biascicato, talora consigliato. Ha messo la faccia feroce solo sul carcere duro, tanto ci hanno pensato i giudici di sorveglianza e i professionisti dell’ingiustizia clandestina a farne polpette.

Sulla confisca è stata lotta strisciante. Si tratta di un meccanismo che fa letteralmente impazzire mafia, camorra e ‘ndrangheta . Basta non sapere dimostrare l’origine lecita dei beni perché possa scattare l’iter del provvedimento. Pio La Torre, che inventò la legge, venne ucciso per avere osato tanto. E nemmeno dopo la sua morte la legge (firmata anche da Virginio Rognoni) passò. Ci volle la morte del prefetto Dalla Chiesa, anche lui fautore convinto di quella misura, perché la legge venisse finalmente approvata. Per essere attuata con difficoltà, tra mille ritardi, inerzie, ostacoli burocratici. Ma attuata. Con i boss che vedevano svanire come in un incubo i frutti dei loro crimini. Fatto l’impero a prezzo di sangue (magari di famiglia), l’impero poteva sparire d’incanto per decisione di magistrati che guadagnavano meno di un killer. Il secondo affronto giunse con la legge approvata nel ’96, forte del milione di firme raccolte da Libera di don Ciotti in tutta Italia. I beni confiscati potevano addirittura essere destinati a usi sociali, dati in gestione a quei giovani straccioni senza lavoro che si erano schierati negli anni dalla parte dell’antimafia.

Per questo la mafia insorse. Intimidì, cercò di isolare le cooperative. Per i primi lavori di trebbiatura ci vollero le precettazioni prefettizie dei tecnici e il presidio dei carabinieri. Quando vide che la volontà di questi “abusivi” non era facilmente domabile, la mafia fece sentire il suo fiato nelle stanze del potere e alitò in sintonia con le secolari pigrizie delle burocrazie. Lottò vittoriosamente contro l’idea di una specifica agenzia che potesse occuparsi in modo rapido ed efficiente di assegnare i beni confiscati. E proseguì le intimidazioni: il taglio delle viti, gli incendi, i vandalismi. E perfino l’occupazione manu militari dei terreni confiscati. Insomma, una partita dura, un vero braccio di ferro tra l’Italia della legalità e l’Italia del sopruso e delle criminalità.

Pochi giorni fa, per chissà quali percorsi, qualcuno ha deciso che in questo braccio di ferro il Parlamento ci dovesse mettere, come dicono in Sicilia, “la sua mano d’aiuto” per indebolire l’Italia della legalità. Un bell’emendamento in Finanziaria, al Senato. Per mandare i beni dei mafiosi all’asta. Per fare cassa subito, accidenti, non lo vedete in che situazione siamo? Certo che si vede, anche troppo. Perché chiunque abbia coscienza limpida capisce che si tratta di un incalcolabile favore. La mafia si presenterà alle aste con i suoi mediatori o prestanome. Lei con la sua immensa liquidità da crimine, a cui nessuno può tenere testa. Intimidirà eventuali concorrenti e organizzerà delle finte competizioni, come le organizzavano (senza kalashnikov a disposizione) gli imprenditori di Tangentopoli. E si riprenderà il maltolto con un ghigno di trionfo, lo stesso con cui brindava dal carcere (non duro) all’assassinio dei suoi nemici. Lo Stato incasserà in moneta sporca quello che perderà rinunciando a trasformare in scuole o pensionati studenteschi una parte degli immobili confiscati. Se alla Camera esiste un’Italia della legalità che ricorda la storia dei suoi eroi e le proprie più solenni promesse, cancelli questa vergogna.

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