venerdì 15 gennaio 2010

25 ANNI SOTTO IL REGNO DI GOMORRA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 15 gennaio 2010

di Antonio Massari
(Giornalista)


VENTICINQUE ANNI di storia criminale. Un quarto di secolo. Una storia che non è ancora terminata poiché Antonio Iovine e Michele Zagaria, i due “capi dei capi”, sono ancora forti e potenti: sono latitanti e proprio alla latitanza devono il loro potere. Comandano il clan dei “Casalesi” e gestiscono ricchezze immense, dirottate ormai nell’economia legale, accumulate a vangate di calcestruzzo, estorsioni e colpi di kalashnikov. Accumulate sin dal 1983, quando a Roma viene ammazzato Vincenzo Casillo, luogotenente della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Le “vili cotolette” – così venivano definiti Cutolo e i suoi uomini, dai nemici – dovevano essere letteralmente “trucidate”. Ovunque fossero. Persino in carcere. La Nuova Famiglia contro la Nuova Camorra Organizzata: è questo il germe che partorirà i Casalesi. E da qui bisogna incominciare, per capire come e perché, venticinque anni dopo, siamo dinanzi al più grande maxi-processo mai approdato in Cassazione, dopo quelli istruiti da Falcone e Borsellino contro Cosa Nostra. Dobbiamo incominciare da quel 1983, per ricordare un particolare. Un “dettaglio” che unisce le due strade. All’incrocio troviamo due personaggi: Antonio Bardellino e Tommaso Buscetta.

IN GUERRA CONTRO

CUTOLO E LA SUA NCO

Bardellino è a capo della guerra contro Cutolo e la sua NCO. Bardellino è l’uomo fidato di Lorenzo Nuvoletta. E Nuvoletta fa parte di Cosa Nostra. È Tommaso Buscetta che lo racconterà, a Giovanni Falcone, appena un anno dopo. È il 23 luglio 1984.

“Anche in Campania ci sono famiglie mafiose”, dice Buscetta. “Trattasi di tre famiglie che fanno capo a Michele Zaza di Napoli, Antonio Bardellino e ai fratelli Nuvoletta”. Le famiglie avevano un “capomandamento”, un rappresentante nella commissione di Palermo, ed era “il più anziano dei fratelli Nuvoletta”. Nei fatti, però, Nuvoletta non partecipava personalmente alle riunioni della commissione. Era il “portavoce”, spiega Buscetta , e rappresentava le esigenze delle famiglie napoletane a Michele Greco, il quale, poi, le riportava in seno alla commissione. Il fidanzamento tra Camorra e Cosa Nostra risale alla metà degli anni Settanta, con l’aumento del contrabbando, settore privilegiato della criminalità campana, sul quale Cosa Nostra vuole mettere le mani senza troppi problemi. Cutolo però non ci sta. Rifiuta l’offerta della mafia. Vuole andare avanti per i fatti suoi. Irride persino Riina e i Corleonesi, quando riceve l’invito e declina. Ma i Corleonesi vantano buoni rapporti con i Nuvoletta, amici di Luciano Liggio, e di lì a poco nascerà la “costola campana” di Cosa Nostra. Questa “costola”, poi, partorirà i Casalesi: Bardellino e Nuvoletta riescono a sconfiggere le “cotolette”. E insieme si dedicano al cemento: il terremoto del 23 novembre 1980 ha devastato l’Irpinia. Arriva un diluvio di fondi pubblici per la ricostruzione. E il calcestruzzo vale più delle sigarette. Molto di più.

Bardellino e Nuvoletta, che all’inizio del 1984 sono ancora alleati, fondano (più o meno direttamente ) due imprese. Nuvoletta, la Bitum Beton Spa. Bardellino, a Santa Maria la Fossa, mette in piedi General Beton. Un anno dopo, nell’affare calcestruzzi, spunta un nuovo imprenditore: Antonio Iovine, che fonda la Annunziata Calcestruzzi. La coppia Bardellino-Nuvoletta, però, è già pronta a spaccarsi: inizia un’altra guerra. E la vince Bardellino, in alleanza con altre famiglie di Camorra, rafforzando il proprio potere. Per il momento. Nel frattempo il calcestruzzo fa volare l’economia dei clan di Casal di Principe e dintorni. I Casalesi mettono le mani sulla ricostruzione di un canalone, quello dei Regi Lagni, lungo circa 50 chilometri. Nel 1993 i lavori saranno costati, giusto per comprendere l’entità dell’affare, ben 500 miliardi di vecchie lire. Negli anni Novanta, per quanto sembri incredibile, i Casalesi guadagneranno miliardi dalla costruzione di un carcere: quello di Santa Maria Capua Vetere. La stessa Santa Maria Capua Vetere dove si terranno oltre 600 udienze, poi, per il processo Spartacus, che li vedrà condannati a decine di ergastoli. S’infiltreranno nell’affare dell’Alta velocità. E giorno dopo giorno acquisiranno il controllo completo e capillare del territorio. All’ombra di Bardellino, oltre Antonio Iovine, è cresciuta anche la famiglia Bidognetti. Dal calcestruzzo alle pompe funebri: nella provincia di Caserta, qualsiasi attività di lucro,ècontrollatadaiclan.Uncollaboratoredigiustizia, Dario De Simone, nel 2000, spiegherà il “sistema”.

LE RIVELAZIONI

DI DARIO DE SIMONE

“Sulterritoriocasertanoc’eraunmonitoraggio giornaliero, non sfuggiva niente, neanche dei piccolilavori,c’eranodeiragazzicheandavanoin giro a controllare questi lavori. Se c’erano dei lavori che non erano già stati messi a posto, nel senso che l’imprenditore non pagava già la tangente, questo cantiere veniva bloccato, fermato e poi l’imprenditore si metteva in contatto con l’organizzazione, o con altri imprenditori che già pagavano, e regolarizzava la sua posizione. Quando si bloccava e si chiudeva un lavoro, chiaramente, tutti i soldi venivano messi in una cassa comune, che era a Casal di Principe. Poi

ogni fine mese si facevano i conti per tutti gli affiliati, si conteggiavano tutte le persone, paese per paese, capo zona per capo zona, e si preparavano gli stipendi”. E sono proprio i soldi, a determinare una nuova guerra interna, quella che darà il via definitivo alla nascita dei Casalesi.

“S’incominciò a parlare di far fuori la famiglia Bardellino, perché erano dei tiranni, se si può dire così”, racconta in aula Dario De Simone, collaboratore di giustizia, sentito in udienza per ben 27 volte. La “tirannia” di Bardellino era incentrata sulla distribuzione delle entrate: “Facevano tutto a Maria e niente a Gesù”, continua De Simone, “Quindi loro campavano benissimo, avevano molti soldi chiaramente, perché di soldi ne entravano parecchi, però le persone dell’organizzazione, non dico che rimanevano le briciole, però, insomma, una buona parte andava alla famiglia Bardellino”. Un mese dopo, De Simone, spiega in udienza quanto guadagnasse il gruppo camorrista. Alla domanda “che entità avevano queste entrate mensili?”, De Simone risponde: “Potevano essere mezzo miliardo (di lire, ndr) come settecento, seicentocinquanta, dipendeva, avvocato. Queste erano le cifre, non scendevano mai sotto il mezzo miliardo. I soldi arrivavano dai cantieri della zona (si parla di estorsioni, ndr) [...]. Capitava che a volte, quando si facevano i conti, noi dovevamo elencare tutti i soldi che entravano [...]. Poi c’erano periodi diversi dagli altri: Natale, Pasqua, Ferragosto, erano periodi che s’incassava molto di più [...].

GLI INVESTIMENTI

IN TERRA STRANIERA

Bardellino e Mario Iovine s’arricchivano parecchio. E spesso investiva all’estero, soprattutto tra il Brasile e Santo Domingo, dove gli investigatori scoprirono altre imprese: in Brasile i boss avevano investito sull’esportazione del pesce e un’azienda a loro riconducibile, la Bras Fish di Busios, era sospettata di trafficare, in realtà, sostanzestupefacenti.Soldielusso,quindi,conbarche ormeggiate sulle coste brasiliane. L’11 gennaio 1988, però, viene ammazzato Domenico Iovine,fratellodiMarioIovine,einizianoletensioni interne al clan. Ma è proprio in Sudamerica che inizia la guerra di successione: il 25 maggio, Bardellino, viene ucciso da Mario Iovine. Muore, secondo le narrazioni, a Buzios, in Brasile. Un omicidio che entra nella leggenda: il corpo di Bardellino non sarà mai ritrovato. Viene ricostruito in base alle dichiarazioni di alcuni affiliati. Come Giuseppe Quadrano, che spiega di aver saputo, dell’omicidio di Bardellino, direttamente da Mario Iovine: “Lui disse che s’incontrarono in una località del Brasile, in una casa dove c’era la convivente [...] una certa Rosa [...] e c’era un certo Gennaro [...]. Iovine mi spiegò che lui e questo Gennaro avevano ucciso Bardellino. Veramente quello che l’aveva ucciso era stato lui, e l’aveva ucciso a martellate [...]. Mi spiegò tutto, come aveva fatto per ucciderlo, disse che stavano giocandoacarteementreBardellinosialzòeglivoltò

le spalle, per andare a prendere una cosa, non appena si voltò, lui teneva il martello già nascosto vicino al tavolo... lui s’alzò, gli diede una martellata in testa. La prima martellata che gli diede – queste sono le sue parole – disse che “gli sfondò il cranio”.Luicaddeaterraelofinìsempreacolpidi martello, sempre sul cranio. Poi lui e questo Gennaro...preseroquestocadavere,lomiseroinmacchina e lo andarono a buttare. Mentre su Rosa, la convivente... Iovine disse: “È stata lei che ha pulito la casa, ha pulito tutto il sangue, ha tolto tutto”. Lui esaltò pure questa donna che l’aveva aiutata a pulire” [...].

Poche ore dopo l’omicidio, una telefonata intercontinentale, avvisa gli affiliati della morte di Bardellino. È il via libera alla faida: nel casertano, i morti, si conteranno a decine. Il giorno dopo l’omicidio di Bardellino, siamo al 26 maggio 1988, il suo braccio destro, Paride Salzillo, viene ammazzato a Casal di Principe. Neanche il suo cadavere sarà mai ritrovato. Passano 24 ore e un affiliato si presenta nella caserma Patrengo di Napoli. Si costituisce e inizia a parlare. È un esponentedelgruppoBardellino:sperachelesueconfessioni spingano lo Stato a intervenire. Salvando il suo gruppo, destinato, ormai, alla distruzione.

IL NIPOTE

DI BARDELLINO

“Paride Salzillo viene da noi, che stavamo in una casa sotto il porticato. Appena entra nella cucina, io gli vado incontro e gli sfilo la pistola dal pantalone. Tutti noi l’abbiamo accerchiato e Paride Salzillo è andato verso una sedia che stava poco distante, l’unica... capì subito che doveva morire. Appena io dissi: “Tuo zio è morto, adesso muori pure tu”, lui capì subito e si andò a sedere subito sulla sedia, non disse nemmeno una parola. Noi tutti lo attorniammo, ci mettemmo tutti intorno, chi gli manteneva le gambe e chi le braccia e da dietro Giuseppe Caterino lo cominciò a strangolare con una corda di tipo di quelle plastificate,diquelle...sa,signorpresidente?Diquelle che stanno intorno ai provoloni. Nel frattempo [...] rientrarono Francesco Schiavone “Sandokan”, Luigi Basile e Vincenzo De Falco. Vincenzo De Falco spinse a Luigi Basile, disse: “Vai là, aiuta pure tu a strangolare ‘sto fetente” e così Luigi Basile venne vicino a noi e pure lui gli teneva le braccia , per la verità non è che Paride Salzillo si dimenassepiùditanto,enelfrattempoSandokanstava immobile, osservava solo la scena, mentre tutti lo mantenevano. Vincenzo De Falco iniziò già a spogliarlo, a togliergli i pantaloni, a togliergli tutto, ma ci volle un bel po’ di tempo prima che non desse più segni di vita. [...] Morì fissando gli occhi di Vincenzo De Falco”. [...]

In soli due giorni, quindi, cambiano gli equilibri interni al clan: i Casalesi sono al comando. E gli SchiavonediSandokanincameranoalcunibenidi Bardellino, incluso l’impianto di calcestruzzo di Santa Maria la Fossa, mentre i capitali accumulati all’estero non saranno mai recuperati. Intercettati dagli investigatori, alcuni uomini del gruppo Bardellino sfuggiti alla morte, commentano: “Dicono che a Casale stanno facendo tutti le porte di ferro, pure le botteghelle, le bancarelle, stanno tuttiafareleportediferro,diconocheilfabbroha fatto seicento milioni di ferro, siamo tornati a cento anni fa, hanno distrutto un impero”. In realtà, con il sangue, ne stanno costruendo un altro. Il 17 dicembre c’è la “strage di Casapesenna”, un conflitto a fuoco da film western, con i Casalesi da un lato, e i reduci del gruppo Bardellino, dall’altro: duemortieunferito.Gliinquirentitroveranno64 bossoli sul selciato e 72 nel cortile: nello scontro vengono usate ben 12 armi diverse.

L’ASCESA

FA “NOVANTA”

Sono gli anni dell’ascesa definitiva. I Casalesi consolidano il proprio potere, nonostante ulteriori guerre interne, tra il 1992 e il 1993, e amministrano traffici, estorsioni e risorse. Al centro degli affari, come sempre, cemento e costruzioni:“Laprimacosachesifaceva”,raccontaunteste in dibattimento, “era sapere il nome dell’impresa che doveva eseguire i lavori. Poi questa persona veniva chiamata, si chiudeva il lavoro e i soldi che doveva dare all’organizzazione e, in più, gli dicevamo dove rivolgersi, nella zona, per prendere il cemento”. [...]

Il clan riesce a ottenere “tangenti” sulla costruzionedellaterzacorsiadell’autostradaNapoli-Roma. Ma soprattutto s’infiltra nei consorzi di produzione del calcestruzzo, come il Covin, consorzio di cave e brecciame, come, già in passato, aveva fatto con il gruppo Bardellino. Il funzionamente del consorzio è spiegato – con eloquente semplicità – da Carmine Alfieri: “Erano molti i produttori di calcestruzzo che si associarono per formare questoconsorzio(chenascenel1979,ndr)eilfineera sempre per il consorzio del brecciame, cioè chi faceva il calcestruzzo, che non voleva aderire a questo consorzio, non poteva scaricare nelle zone che erano controllate nella malavita. [...] I proventi andavano tutti all’organizzazione (dei Casalesi, ndr) [...]. Luigi Basile chiedeva una tangente del7percentopercontodeiCasalesi”.[...]Il7per cento su tutto il cemento, quindi, destinato allecostruzioni,sullequalipoiottenevanoaltreestorsioni nei cantieri, e così via, in un’accumulazione impressionante di capitale. Il tutto in regime di monopolio: il mercato era esclusivamente in mano ai Casalesi. Il modello Covin transita in un altro consorzio, il Cedic, dove confluiscono tutti i produttori di cemento della provincia di Caserta. Il clan ormai può imporre i prezzi in maniera apparentemente legale, nel mercato legale, accumulando fortune da riciclare. Gli affari continuano anche quando, nel 1992, i consorzi si sciolgono: “Dopo un certo periodo”, dice Dario De Simone, “il Cedic s’è sciolto: ogni calcestruzzo è tornato come era prima, libero di lavorare nella sua zona. Però – chiaramente – le calcestruzzi, nella nostra zona, i soldi a noi ce li dava sempre: 2.000 lire a metro [...]. E poi c’era un fatto: che le calcestruzzi esterne da noi non potevano venire a scaricare [...]. I soldi ce li portavano mensilmente tutti i calcestruzzi” [...]. Negli stessi anni, però, un parroco di Casal di Principe esorta la gente a reagire. È don Peppino Diana. Lo fa dal pulpito della sua chiesa, San Nicola di Bari, e con degli scritti che disturbano i clan. Parla di Camorra come “Stato deviante”, dice che i cristiani non possono rinunciare alla “denuncia”, spiega che “la Camorra è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare una componenteendemicadellasocietàcampana”.Pochi anni dopo, pagherà la sua ribellione cristiana all’oppressione mafiosa, con il suo stesso sangue.

Il 18 dicembre 1993 viene arrestato Francesco Bidognetti, capo del gruppo omonimo, al vertice del clan dei Casalesi. Da allora, non è mai più uscito dal carcere. Quattro mesi dopo viene ammazzato don Peppino Diana: muore il giorno del suo onomastico, il 19 marzo, ucciso da due sicari che lo colpiscono con quattro proiettili, tre alla testa e uno alla mano, nella sacrestia della chiesa. Il vero movente del suo omicidio, però, sembra un altro: siamo nel pieno di una nuova “guerra interna”, nata dopo l’omicidio di Vincenzo De Falco, nel febbraio 1991. Sono i “perdenti”, gli stessi uomini legati a De Falco, a uccidere don Peppino per far ricadere poi la colpa sugli Schiavone. Dal 1995 in poi, i clan iniziano a subire arresti su arresti, fino a quando, l’8 novembre del 1996, non si tiene la prima udienza preliminare del processo Spartacus1.ilnumerodeicollaboratoricrescedigiorno in giorno, l’11 luglio del 1998 viene arrestato Francesco Schiavone detto Sandokan, ancora oggi in carcere. Dopo Bidognetti, è il secondo capo della “federazione” a essere catturato, ma, sin da allora, restano latitanti gli altri due “capi dei capi”, Antonio Iovine e Michele Zagaria. Assisteranno da uomini “liberi”, nascosti nella provincia di Caserta, alla condanna dei loro sodali, sia in primo grado, che in Corte d’Appello. E da uomini “liberi”, seppure condannati all’ergastolo, aspettano ora la decisione della Corte di Cassazione. Che si esprime oggi.

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